mercoledì 20 luglio 2016

Recensione: "A DUE SCATTI DA TE.." di Elisabetta Pandolfino


Articolo: Giornale di Sicilia - Martedì 19 luglio 2016



A due scatti da noi, le mani, i fiori, i tronchi, gli alberi, la natura, i profumi e un’isola: Salina; Elisabetta Pandolfino ci ricorda e ricorda prendendoci per mano: adesso, fermati, prova ad immaginare, a due scatti da te c’è uno sguardo di un amico, c’era l’uomo che hai sempre sognato; c’è l’immagine di un bimbo, c’è la natura, c’è un’isola: Salina … non è poi così distante.
Molto singolare, noi ci fermiamo e ci chiediamo: come nasce un mito? La domanda è certamente affascinante e fondata, quanto ripetitiva e noiosa; ma è l’unica vera domanda che ti fa riflettere, meditare e qualche volta parteggiare con quella patina di simpatia e antipatia che avvolge e sconvolge noi umani, che poi si trasforma, per fortuna, in amore per il bello e, soprattutto, per le immagini di chi li ritrae e chi andando oltre le trasforma in mito.
Un amplesso forte fra l’autore inconsapevole e il fruitore innamorato.
La carta, lo stampato, le foto ancora una volta oltre a creare un mito, abbattono le barriere e ci legano, facendoci portare da quel vento che solo noi del sud sappiamo assaporare perché è in noi ogni giorno, ci accarezza insieme alla natura e ai volti, almeno quanto la prospettiva, la musica e le carezze.
Ma il punto fondamentale sta solo nella semplicità del compendio l’esigenza di una visione limitata del sapere, dove la ricerca scientifica goda di una dignità culturale piena, senza la limitazione dei dettagli di minore importanza.
Un’opera è sempre una sfida e nello stesso tempo una base concreta della progettazione di molti percorsi formativi per i nostri giovani che da noi al sud vivono in una situazione di isolamento da superare, non è provinciale, sono qualcosa di ancora più remoto e storicamente mortale.
Siamo alla presenza di un esempio per tutti, uno sforzo singolo che venendo dalle immagini diventa studio sul linguaggio umano, singolarità cartesiana che si chiama indagine qualitativa di una espressione dell’architettura neurobiologica del nostro pensiero, che costantemente si modifica.
Lo sforzo creativo che presenta è proprio la simbologia da mutare, del vivere, del crescere, la testimonianza della casualità e del genio; infatti nessuno sa quale sia la ricetta per una scoperta scientifica, allo stesso modo nessuno conosce quella per un capolavoro artistico; nella scienza come nell’arte vincono l’imprevisto e la fantasia, sorretta dalle spalle poderose del metodo e della passione.
Elisabetta Pandolfino schiude una finestra fiorita sull’infinito di un’isola e ci sussurra in coro.
Il nostro percorso continua porteremo con noi, un souvenir rappresentato da un delfino di cristallo e i nostri scatti, con tutte le emozioni che ci regale Elisabetta Pandolfino, insieme naturalmente al suo sorriso.
Achille Baratta




giovedì 14 luglio 2016

CENTONOVE - Anno II - Numero 28 - 14 luglio2016 - CON GIUSEPPE DI FAZIO LA NOTIZIA DIVENTA STORIA VISTA DALLA SICILIA

CON GIUSEPPE DI FAZIO LA NOTIZIA DIVENTA STORIA VISTA DALLA SICILIA
Achille Baratta
È mascherato il venditore di giornali che è rappresentato nella copertina del libro “La notizia diventa storia” di Giuseppe Di Fazio, Domenico Sanfilippo Editore in abbinamento al quotidiano “La Sicilia” e si interpone tra noi e l’autore per dirci la verità scritta e vissuta da un protagonista dello scrivere in Sicilia per la “la Sicilia”.
Per raccontare dei fatti di Sicilia occorre essere siciliani come Alfio Caruso, Sebastiano Ardita, Antonio Prestinenza, Aldo Carratore, Piero Corigliano, Agatino Cariola, Roberto Cellini, Pietro Barcellona e, non per ultimo, il giornalista scrittore Nino Milazzo con il suo recentissimo romanzo profondamente siciliano “I prigionieri di Sirte” (edito da Bonanno) e in questo deserto dei tartari Giuseppe Di Fazio con la sua modestia e la sua intelligenza non è secondo a nessuno. E, poi, ancora Giuseppe Gennaro, Salvatore e Pietro Nicolosi, Francesco Consoli, Livio Messina, Renzo Di Stefano e Filippo Macrì.
Il giornalismo è la storia immediata vissuta ogni giorno in redazione dimenticando tutto quello che personalmente ti coinvolge per essere solo al servizio di un’etica forte: lui scrive:
La battaglia dell’informazione, tradizionalmente, è stata basata sulla necessità di arrivare per primi a dare una notizia, in modo da conquistare più lettori, più visualizzazioni o più share. Per ottenere questo scopo alcune reti tv hanno persino anticipato di 30 secondi o di un minuto l’arrivo del nuovo anno.. Ma non basta arrivare per primi per fare buona informazione, occorre verificare la veridicità dei fatti, scavare nella profondità della notizia, contestualizzarla, scoprirne i nessi con altri eventi e con i desideri profondi della gente. Attraverso questo lavoro paziente, che a volte esige la fatica di andare a seguire di persona gli avvenimenti o di condividere le sofferenze degli sfollati, dei terremotati e dei migranti in fuga, l’informazione offre materiale utile al racconto degli storici. Anzi, diventa, essa stessa narrazione storica: come notava Camus, il giornalista è lo storico del momento.
Pietro Barcellona, filosofo del diritto ed editorialista, sosteneva addirittura che ogni intellettuale dovrebbe cimentarsi nella sfida di «vedere la cronaca quotidiana dei fatti come il progressivo emergere dei segni dei tempi che costituiscono il tessuto della storia e dei suoi processi». In questa fatica, pur dentro le rigide regole della comunicazione immediata, il giornalista può accendere un faro su una società disorientata dall’enorme e incontrollato flusso delle informazioni offrendo una ipotesi per comprendere il presente.
Seguendo queste tracce, scrive l’autore, il giornalista può arrivare alla medesima consapevolezza degli storici, nella consapevolezza e al fondo della propria esperienza lasciano sempre aperto uno spiraglio a quella che non si conosce ma probabilmente si conoscerà.
Chi scrive con passione e di getto, ti porta per mano a danzare nel mondo dell’informazione per guidarti a non sbagliare tempo e che tutto va guardato nel contesto dell’orchestra e del salone dove balli, compresi i visi dei servitori e degli stessi invitati che sembrano essere di marmo ma trafficano sotto i tavoli e non solo mafiosi ma protagonisti di un presente che ci sfugge, osservando e raccontando la realtà senza pregiudizi ideologici.
Andare indietro nel tempo al marzo del 1946 e, in particolare, al separatismo siciliano è una tappa d’obbligo, e lui scrive:
Russo non volle affrontare la questione “ideologicamente”, sfoderando fondi e commenti per combattere un fenomeno considerato dannoso per l’Isola. Decise, piuttosto di inviare il giornalista allora dotato di maggiore esperienza per capire anzitutto quali motivazioni spingessero tanti giovani nelle braccia del movimento separatista, per raccontarne la vita alla macchia e per indagare sulla reale leadership del movimento e sui suoi legami col banditismo. L’inchiesta è interessante soprattutto perché ci offre un metodo del lavoro giornalistico. Il primo dato è il desiderio di capire il fenomeno. E per capirlo bisogna vederlo dall’interno. «È bella la macchia per chi la vede da turista; può essere interessante per chi la osserva da giornalista – scrive il 3 marzo 1946 Giuseppe Gennaro – ma è terribile per chi è costretto a viverci». Eppure, prosegue Gennaro, «quelli dell’Evis (Esercito volontario per l’Indipendenza della Sicilia, ndr) bivaccano alla macchia e si preparano alla guerra». Ancora più interessanti sono le domande da cui parte l’inviato del quotidiano catanese: «Chi spinse questi giovani a infrangere l’ordine di una legge costituita, a bruciare dietro di loro tutti i ponti, e a scavarsi davanti un abisso, a vivere come su un filo rasoio?». Molti di questi giovani, nota Gennaro, non scappavano per coprire un passato di cui vergognarsi né avevano bisogno di riconquistare una «verginità politica o morale». Rischiavano la vita per un ideale, o per una illusione. «La macchia – scrive Gennaro – ha le sue esigenze, ferree e ineluttabili, né l’ideale che ancora li anima è sufficiente ad assicurare il loro vivere».
Poi ai facinorosi si affiancano i malavitosi; ma la goccia fredda venne dall’America:
per bocca del senatore Goffrey, membro della commissione per le relazioni che dichiarò: «Soltanto col mantenere un fronte unito i popoli della Sicilia e dell’Italia possono sperare di usufruire dei benefici di una pace duratura. La nostra posizione ufficiale è che non daremo il nostro appoggio a nessun movimento tendente al separatismo o alla suddivisione».
E poi la cabina di regia ci porta nell’estate del 1953 un cronista riferì al direttore de “La Sicilia” (dopo Russo era subentrato al timone del quotidiano catanese Antonio Prestinenza) che a Siracusa migliaia di persone andavano quotidianamente in processione in una casetta in via degli Orti dove si diceva vi fosse un quadretto della Vergine che lacrimava. Il cronista non mancò di aggiungere il suo commento: «Sono tutte sciocchezze». Prestinenza si attenne ai fatti, e al cronista rispose: «Non spetta a noi criticare né tantomeno decidere sul fervore religioso di chi crede al miracolo. È nostro compito registrare il fatto che migliaia di cittadini per la strada gridano a quel miracoloso dono. Chiamiamo il corrispondente Aldo Carratore».
Il direttore non era un clericale baciapile; era però un giornalista, e come tale lasciava prevalere la realtà del fatto sulle opinioni personali. Anche in questo caso è interessante il metodo seguito dal giornale: chiamare un giornalista locale e chiedergli di osservare quello che lì stava accadendo e di raccontarlo. Osservare e raccontare. Grazie a quelle cronache, avrebbe scritto molti anni più tardi il condirettore Piero Corigliano, «La Sicilia uscì dalla cinta daziaria di Catania e invase le edicole della consorella [Siracusa]».
E ancora i fatti con lo sguardo appannato: il caso dei minori nella Formazione professionale e il diritto allo studio che ci viene violato contro l’art. 120 della Costituzione, poi Centuripe in comune isola, nell’isola che non c’è. poi Santa Croce Camerina, il caso Loris come banalità del male, la mafia e la questione minorile, le vicende di Don Pino Puglisi, il giudice ragazzino che voleva dare un’anima alla legge e che ha pagato immolando il suo corpo e la sua stessa anima e, poi, la lotta contro la paura:
che tiene schiavo un popolo – come ci ha insegnato Vaclav Havel – per risultare vittoriosa non ha bisogno di grandi masse. Essa necessita semplicemente di un soggetto nuovo – la persona – capace di sfidare il potere in nome della verità e in forza di un profondo desiderio di libertà. I regimi dittatoriali (ieri l’impero sovietico, oggi l’Isis) hanno una spina nel fianco: le persone che non si assoggettano allo strapotere e che sono capaci di sfidare la paura. E poi, ahimè, sullo sfondo le rivoluzioni, un presagio o una realtà potenziale?
Il lavoro che ci attende per uscire dalla crisi in cui ci troviamo impantanati – crisi antropologica, prima che, economica – riguarda una paziente educazione a riscoprire la realtà, e in particolare l’altro, come possibilità di bene e non come minaccia. L’universo del nostro immaginario collettivo è costellato di barriere per difenderci da possibili nemici, che non sono più soltanto i lontani, da parte loro estranei e magari ostili alla nostra tranquillità, sono paradossalmente anche i nostri vicini, quelli che un tempo, usando un’espressione della tradizione cristiana, chiamavamo il prossimo. Nella nostra epoca, dunque, si impone l’urgenza di riconoscere che «la cultura degli altri è come lo specchio nel quale rifletterci per comprenderci meglio». Lo straniero, così come il vicino di casa, non sono i nemici di cui avere paura. Sono l’opportunità per andare nella profondità di noi stessi e vivere in pienezza la nostra umanità. Accogliere questa possibilità – in un tempo di migrazioni di massa dal Sud del mondo e di nuovo terrorismo – significa per l’Europa deporre l’idea di essere un fortilizio assediato e concepirsi di nuovo come «lo spazio in cui si possano incontrare i diversi soggetti, ciascuno con la propria identità, per aiutarsi a camminare verso il destino di felicità a cui tutti aneliamo».
Ma è proprio vero che possiamo sognare? Il potere di dietro le quinte esiste e quanto incide in un mondo di incolti che non sa leggere oltre le righe; desidero concludere con una frase di Giuseppe Di Fazio che racchiude la filosofia e la vita di un giornalista di fede: Il caso ci riporta ad una considerazione iniziale: la maestra del giornalismo è l’osservazione della realtà, il vero eroe nel tempo delle mode culturali è chi riesce ancora a dire che l’erba è verde e gli uccelli cantano a primavera.
Mai confondere il giornalaio col giornalista, ma agli edicolanti storici delle nostre città, che vendendo i giornali ci mettono la faccia, va almeno un grazie ed un servizio speciale se lo meriterebbero.