CON GIUSEPPE DI
FAZIO LA NOTIZIA DIVENTA STORIA VISTA DALLA SICILIA
Achille Baratta
È mascherato il
venditore di giornali che è rappresentato nella copertina del libro “La notizia
diventa storia” di Giuseppe Di Fazio, Domenico Sanfilippo Editore in abbinamento
al quotidiano “La Sicilia” e si interpone tra noi e l’autore per dirci la
verità scritta e vissuta da un protagonista dello scrivere in Sicilia per la
“la Sicilia”.
Per raccontare
dei fatti di Sicilia occorre essere siciliani come Alfio Caruso, Sebastiano
Ardita, Antonio Prestinenza, Aldo Carratore, Piero Corigliano, Agatino Cariola,
Roberto Cellini, Pietro Barcellona e, non per ultimo, il giornalista scrittore
Nino Milazzo con il suo recentissimo romanzo profondamente siciliano “I
prigionieri di Sirte” (edito da Bonanno) e in questo deserto dei tartari
Giuseppe Di Fazio con la sua modestia e la sua intelligenza non è secondo a
nessuno. E, poi, ancora Giuseppe Gennaro, Salvatore e Pietro Nicolosi,
Francesco Consoli, Livio Messina, Renzo Di Stefano e Filippo Macrì.
Il giornalismo è
la storia immediata vissuta ogni giorno in redazione dimenticando tutto quello
che personalmente ti coinvolge per essere solo al servizio di un’etica forte:
lui scrive:
La battaglia dell’informazione, tradizionalmente, è
stata basata sulla necessità di arrivare per primi a dare una notizia, in modo
da conquistare più lettori, più visualizzazioni o più share. Per ottenere
questo scopo alcune reti tv hanno persino anticipato di 30 secondi o di un
minuto l’arrivo del nuovo anno.. Ma non basta arrivare per primi per fare buona
informazione, occorre verificare la veridicità dei fatti, scavare nella
profondità della notizia, contestualizzarla, scoprirne i nessi con altri eventi e con i desideri profondi della gente. Attraverso questo lavoro
paziente, che a volte esige la fatica di andare a seguire di persona gli
avvenimenti o di condividere le sofferenze degli sfollati, dei terremotati e
dei migranti in fuga, l’informazione offre materiale utile al racconto degli
storici. Anzi, diventa, essa stessa narrazione storica: come notava Camus, il
giornalista è lo storico del momento.
Pietro Barcellona, filosofo del diritto ed
editorialista, sosteneva addirittura che ogni intellettuale dovrebbe cimentarsi
nella sfida di «vedere la cronaca quotidiana dei fatti come il progressivo
emergere dei segni dei tempi che costituiscono il tessuto della storia e dei
suoi processi». In questa fatica, pur dentro le rigide regole della
comunicazione immediata, il giornalista può accendere un faro su una società
disorientata dall’enorme e incontrollato flusso delle informazioni offrendo una
ipotesi per comprendere il presente.
Seguendo queste
tracce, scrive l’autore, il giornalista può arrivare alla medesima
consapevolezza degli storici, nella consapevolezza e al fondo della propria
esperienza lasciano sempre aperto uno spiraglio a quella che non si conosce ma
probabilmente si conoscerà.
Chi scrive con
passione e di getto, ti porta per mano a danzare nel mondo dell’informazione
per guidarti a non sbagliare tempo e che tutto va guardato nel contesto
dell’orchestra e del salone dove balli, compresi i visi dei servitori e degli
stessi invitati che sembrano essere di marmo ma trafficano sotto i tavoli e non
solo mafiosi ma protagonisti di un presente che ci sfugge, osservando e
raccontando la realtà senza pregiudizi ideologici.
Andare indietro
nel tempo al marzo del 1946 e, in particolare, al separatismo siciliano è una
tappa d’obbligo, e lui scrive:
Russo non volle
affrontare la questione “ideologicamente”, sfoderando fondi e commenti per
combattere un fenomeno considerato dannoso per l’Isola. Decise, piuttosto di
inviare il giornalista allora dotato di maggiore esperienza per capire
anzitutto quali motivazioni spingessero tanti giovani nelle braccia del
movimento separatista, per raccontarne la vita alla macchia e per indagare
sulla reale leadership del movimento e sui suoi legami col banditismo.
L’inchiesta è interessante soprattutto perché ci offre un metodo del lavoro
giornalistico. Il primo dato è il desiderio
di capire il fenomeno. E per capirlo bisogna vederlo dall’interno. «È
bella la macchia per chi la vede da turista; può essere interessante per chi la
osserva da giornalista – scrive il 3 marzo 1946 Giuseppe Gennaro – ma è terribile per chi è costretto a
viverci». Eppure, prosegue Gennaro, «quelli dell’Evis (Esercito volontario per
l’Indipendenza della Sicilia, ndr) bivaccano alla macchia e si preparano alla
guerra». Ancora più interessanti sono le domande da cui parte l’inviato del
quotidiano catanese: «Chi spinse questi giovani a infrangere l’ordine di una
legge costituita, a bruciare dietro di loro tutti i ponti, e a scavarsi davanti
un abisso, a vivere come su un filo rasoio?». Molti di questi giovani, nota
Gennaro, non scappavano per coprire un passato di cui vergognarsi né avevano
bisogno di riconquistare una «verginità politica o morale». Rischiavano la vita
per un ideale, o per una illusione. «La macchia – scrive Gennaro – ha le sue esigenze, ferree e
ineluttabili, né l’ideale che ancora li anima è sufficiente ad assicurare il
loro vivere».
Poi ai
facinorosi si affiancano i malavitosi; ma la goccia fredda venne dall’America:
per bocca del senatore Goffrey, membro della
commissione per le relazioni che dichiarò: «Soltanto col mantenere un fronte
unito i popoli della Sicilia e dell’Italia possono sperare di usufruire dei
benefici di una pace duratura. La nostra posizione ufficiale è che non daremo
il nostro appoggio a nessun movimento tendente al separatismo o alla
suddivisione».
E poi la cabina
di regia ci porta nell’estate del 1953 un
cronista riferì al direttore de “La Sicilia” (dopo Russo era subentrato al
timone del quotidiano catanese Antonio Prestinenza) che a Siracusa migliaia di
persone andavano quotidianamente in processione in una casetta in via degli
Orti dove si diceva vi fosse un quadretto della Vergine che lacrimava. Il
cronista non mancò di aggiungere il suo commento: «Sono tutte sciocchezze».
Prestinenza si attenne ai fatti, e al cronista rispose: «Non spetta a noi
criticare né tantomeno decidere sul fervore religioso di chi crede al miracolo.
È nostro compito registrare il fatto che migliaia di cittadini per la strada
gridano a quel miracoloso dono. Chiamiamo il corrispondente Aldo Carratore».
Il direttore non era un clericale baciapile; era
però un giornalista, e come tale lasciava prevalere la realtà del fatto sulle
opinioni personali. Anche in questo caso è interessante il metodo seguito dal
giornale: chiamare un giornalista locale e chiedergli di osservare quello che
lì stava accadendo e di raccontarlo. Osservare e raccontare. Grazie a quelle
cronache, avrebbe scritto molti anni più tardi il condirettore Piero
Corigliano, «La Sicilia uscì dalla cinta daziaria di Catania e invase le
edicole della consorella [Siracusa]».
E ancora i fatti
con lo sguardo appannato: il caso dei minori nella Formazione professionale e
il diritto allo studio che ci viene violato contro l’art. 120 della
Costituzione, poi Centuripe in comune isola, nell’isola che non c’è. poi Santa
Croce Camerina, il caso Loris come banalità del male, la mafia e la questione
minorile, le vicende di Don Pino Puglisi, il giudice ragazzino che voleva dare
un’anima alla legge e che ha pagato immolando il suo corpo e la sua stessa
anima e, poi, la lotta contro la paura:
che tiene schiavo un popolo – come ci ha insegnato Vaclav Havel – per risultare vittoriosa non
ha bisogno di grandi masse. Essa necessita semplicemente di un soggetto nuovo –
la persona – capace di sfidare il potere in nome della verità e in forza di un
profondo desiderio di libertà. I regimi dittatoriali (ieri l’impero sovietico,
oggi l’Isis) hanno una spina nel fianco: le persone che non si assoggettano
allo strapotere e che sono capaci di sfidare la paura. E poi, ahimè,
sullo sfondo le rivoluzioni, un presagio o una realtà potenziale?
Il lavoro che ci attende per uscire dalla crisi in
cui ci troviamo impantanati – crisi antropologica, prima che, economica –
riguarda una paziente educazione a riscoprire la realtà, e in particolare
l’altro, come possibilità di bene e non come minaccia. L’universo del nostro
immaginario collettivo è costellato di barriere per difenderci da possibili
nemici, che non sono più soltanto i lontani, da parte loro estranei e magari
ostili alla nostra tranquillità, sono paradossalmente anche i nostri vicini,
quelli che un tempo, usando un’espressione della tradizione cristiana,
chiamavamo il prossimo. Nella nostra epoca, dunque, si impone l’urgenza di
riconoscere che «la cultura degli altri è come lo specchio nel quale
rifletterci per comprenderci meglio». Lo straniero, così come il vicino di
casa, non sono i nemici di cui avere paura. Sono l’opportunità per andare nella
profondità di noi stessi e vivere in pienezza la nostra umanità. Accogliere
questa possibilità – in un tempo di migrazioni di massa dal Sud del mondo e di
nuovo terrorismo – significa per l’Europa deporre l’idea di essere un
fortilizio assediato e concepirsi di nuovo come «lo spazio in cui si possano
incontrare i diversi soggetti, ciascuno con la propria identità, per aiutarsi a
camminare verso il destino di felicità a cui tutti aneliamo».
Ma è proprio
vero che possiamo sognare? Il potere di dietro le quinte esiste e quanto incide
in un mondo di incolti che non sa leggere oltre le righe; desidero concludere
con una frase di Giuseppe Di Fazio che racchiude la filosofia e la vita di un
giornalista di fede: Il caso ci riporta
ad una considerazione iniziale: la maestra del giornalismo è l’osservazione
della realtà, il vero eroe nel tempo delle mode culturali è chi riesce ancora a
dire che l’erba è verde e gli uccelli cantano a primavera.
Mai confondere
il giornalaio col giornalista, ma agli edicolanti storici delle nostre città,
che vendendo i giornali ci mettono la faccia, va almeno un grazie ed un
servizio speciale se lo meriterebbero.