I PILONI, IL PASSATO E LA NOSTRA VERGOGNA SULLO
STRETTO DI MESSINA
* Achille Baratta
Progettando,
progettando il futuro dello Stretto di Messina con una metropolitana aerea, mi
sono dovuto concentrare sullo stato attuale delle due sponde in cui troneggiano
due ruderi metallici da vertigini per la loro bruttezza, sono lì, senza
destinazione e non uso, non servono a niente, eppure li sopportiamo da sempre,
nel silenzio del nostro inconscio collettivo dimenticando che sono diventati il
simbolo dell’incuria e della disperazione del nostro Sud.
Il segno di due
regioni, che si guardano e non si parlano.
Il nostro
sindaco, ambientalista intransigente a oltranza, il suo pilone a Capo Peloro
non lo ha mai visto, il suo dirimpettaio di Villa San Giovanni non ne parla.
Quando si
dibatteva del Ponte delle burle, si videro i pesci morire sotto l’ombra
dell’impalcato e gli uccelli diedero voce e mandato a chi li ha sempre amati e
difesi perché non si attentasse alla loro vita.
Lo stesso
ingegnere Capo dell’ufficio del Genio Civile e il dirigente della Protezione
Civile di entrambe le sponde non si sono mai chiesti che fanno questi ammassi
di ferro vecchio sulle nostre sponde? E garantiscono la sicurezza in un
territorio sismico?
Poi, un concorso
di progettazione architettonica dove si osannò a questi morti in piedi e
qualcuno ci mise il cappello.
Ora viene il
dubbio, che forse sono talmente belli e colorati che fanno parte dell’ambiente
e che sia Scilla che Cariddi si alzassero dalla tomba se qualcuno gli dicesse
andate, scomparite, non fatevi vedere più.
Poi nasce il
problema di chi è il proprietario ed è normale in un paese normale che viene un
ente di Stato costruisce un elettrodotto, lo mette in funzione e poi lo
dismette, quasi in silenzio, lasciandoti due regalini mastodontici ed insicuri
che svettano al vento col beneplacito di tutti.
Andateci vicino
e vi accorgerete che le immagini che rilevate con la vostra macchina
fotografica o, più semplicemente, col vostro telefonino sono da orrore, di
ritorno in quella giungla in cui gli alberi si sono sostituiti con le armature
che non sorreggono niente e non servono a niente, sono solo l’emblema della
nostra povertà mentale, del nostro ambientalismo ipocrita, della nostra
arretratezza, del nostro abbandono.
Nessuno delle
migliaia di iscritti agli albi professionali specifici di architettura e di
ingegneria delle due sponde ha mai gridato di dolore, gli stessi atenei, che
resteranno presto senza studenti, ha mai pensato che è l’ora di rottamare
questi mostriciattoli dello squallore e ricavarne ferro vecchio da venderli e
per fare cassa, la moltitudine non sa, non vede e soprattutto non sente.
Ulisse si tappò
le orecchie, ma i nostri ambientalisti si sono messi gli occhiali così scuri
che non vedono più il sole che sorge e anche quello che tramonta; tutto è
caduco, tutto è scontato, hanno detto “NO PONTE” ed hanno chiuso con l’ironia
della sorte: questo no, ci costa 700 milioni di euro che dobbiamo pagare a chi
si è appaltata l’opera.
Ma l’importante
è dire sempre no, questo è il motto della nuova rivoluzione che vuole tutto
nuovo e tutto da rifare.
Loro non
propongono, non sanno, guardano il volo degli uccelli e ci comunicano quando
qualche ala si spezza. Ma mia madre diceva, guardano la pagliuzza negli occhi
degli altri ma non vedono la loro trave.
E queste travi
sono molte e mal connesse e piene di ruggine, ma illuminate, fra poco ci
metteranno un Padre Pio sulle vette, la Madonna della Lettera, va isolata e
combattuta e la benedizione va tornata insieme a quella missiva che è la nostra
tradizione e il nostro credo.
Poi i laici
propongono di fare diventare queste diavolerie ricovero per Mata e Grifone.
In fondo loro
sono i nostri progenitori e un ricovero stabile in due punti strategici se la
meritano.
Andare a
fotografare lo Stretto da entrambi i lati è molto divertente, ma ad una
condizione non alzare mai gli occhi vero i mostri sacri.
La sacralità
dello schiaffo è finita; c’è chi ci mette l’altra guancia, pensa al guanciale o
al cotechino, quella sì che è una meraviglia del gusto, non è forse il maiale
il più saporito degli animali; ora qualcuno puzza di asino, ci siamo evoluti,
ma gli asini restano asini anche se appartengono alla parte terminale
dell’Italia e alla porta della Sicilia che è sempre più chiusa ai venti
dominanti.
Di tutti gli
specialisti dell’energia voltaica ed eolica che contraddistinguono la nostra
economia, nessuno ha pensato che almeno la spesa per illuminarli si può
produrre con pochi elementi eolici di nuova generazione.
A loro piacciono
molto i coni di gelato e le granite con la brioche, quegli elementi che ci
gratificano e ci tolgono il piacere di separare nettamente il bello
dall’offesa.
Vi chiedo scusa,
ma guardate queste immagini e ditemi come ci chiamiamo o come ci chiameranno
quelli che verranno nel nostro meraviglioso Stretto caratterizzato dai
paradigmi della Torre Eiffel chiamandolo col loro vero nome.
Ma andiamo
sempre col cappello in mano, leggiamo e accettiamo solo il nuovo che produce e
dà reddito, il resto è truffa.
Forse
occorrerebbe andare a ritroso negli archivi e vedere chi li ha autorizzati e
per quale motivo.
E se il motivo
non c’è più non occorre proporre almeno il cambio della destinazione d’uso. Ma
chi la chiede e chi la vuole? I nostri giornali dopo i fatti di Licata
strombazzarono contro l’abusivismo.
A Messina le
baracche fanno parte della storia e sono extraurbane, non ci sono, non si
vedono, fanno parte del paesaggio. Anche noi siamo parte di un paesaggio
vecchio e antico, dove tutto è sacro e intoccabile, specialmente se ti mettono
una bombetta regalo e noi regali non ne accettiamo, ad eccezione del caffè,
quello è permesso a tutti, anche a quelli che sono stati beccati dalla fortuna
di erigersi a difesa della loro natura, dimenticando che quella appartiene a
tutti.
In definitiva i
mostri non sono destinati ad abitazioni e, quindi, che c’entrano con l’urbanistica,
quella è cosa da specialisti del settore che ogni giorno lottano contro
l’abusivismo urbano ed extraurbano, specialmente perseguendo i balconi, quelli
possono cadere e sono nella necessità collettiva a cui è difficile negare una
autorizzazione.
A Cesare quel
che è di Cesare a Don Peppino quello che è suo; in definitiva nel nome è il
padre di Cristo.
E noi siamo,
soprattutto, cristiani e credenti, il resto non ci interessa, chi “semu fissa”?
Vai a Maregrosso
e scialati, là c’è l’aria pura e la fognatura a cielo aperto che rinfresca e
nutre gli uccelli, questa è vita.
*
Ingegnere/progettista
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